Un acquedotto è un’infrastruttura realizzata per portare acqua dalle sorgenti naturali ai luoghi abitati. A Roma vi erano sedici acquedotti: undici antichi e cinque moderni. Essi furono costruiti a partire dall’età romana, ovvero dal IV secolo a.C. Quelli provenienti dalla Valle dell’Aniene costituivano le quattro aquae publicae più importanti per la loro straordinaria portata; servivano per circa il 40% la richiesta idrica della città. Stiamo parlando dell’Anio Vetus (272 a.C.), dell’Aqua Marcia (144 a.C.), dell’Aqua Claudia e dell’Anio Novus (52 d.C.).

Le sorgenti di questi acquedotti erano nei pressi di Vicovaro, piccolo paese a est di Roma, a monte della gola di San Cosimato. L’acqua scorreva a pelo libero dalla sorgente fino al castellum aquae, struttura di distribuzione urbana. Ciò era possibile, sfruttando la forza di gravità: il condotto era costruito in lieve e costante pendenza con un dislivello di circa un metro ogni chilometro. Gli acquedotti erano costruiti su una base, o fondamenta, su cui correva lo speco, o condotto. A seconda dell’altezza dello speco rispetto al terreno, essi si possono suddividere in due tipologie: a speco sotterraneo, a speco su arcate.

Dopo la caduta dell’Impero Romano, dalle invasioni barbariche fino all’Alto Medioevo, gli antichi acquedotti, rimasti privi di manutenzione e danneggiati a più riprese, cessarono di funzionare invitando la natura a riprendere i suoi spazi.

Nell’età moderna intorno al 1585, su commissione di papa Sisto V, fu costruito l'Acquedotto Felice. Vennero riutilizzate le antiche strutture degli acquedotti romani: il riuso era prassi comune nel Rinascimento. L’acqua Felice scorreva per il primo tratto nello speco sotterraneo dell’Aqua Marcia e, una volta emerso nella zona di Capanelle, proseguiva verso Porta Maggiore sugli archi dell’Aqua Claudia e della Marcia.

Fino agli inizi del Novecento, il paesaggio della Campagna Romana, la vasta pianura ondulata e intersecata da fossi che si estende nel territorio circostante la città di Roma, mantenne l’aspetto solitario e romantico che incisioni, quadri, acquerelli e foto, descrissero fino al secondo dopoguerra. In queste zone era facile imbattersi in imponenti costruzioni romane in rovina, immagine simbolo della tramontata grandezza della città di Roma. Queste, insieme a scene di vita quotidiana di pastori, popolani e briganti furono ampiamente ritratte dai pittori europei del Grand Tour.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale proletari, sottoproletari ed immigrati occuparono con mezzi di fortuna gli archi dell’Acquedotto Felice di Via del Mandrione, nel Municipio VII di Roma. L’acqua fornita dall’acquedotto era ancora potabile e il riscaldamento era assicurato dal calore accumulato durante il giorno dalle murature. Venne così a crearsi una baraccopoli densa di degrado e dolore, che fu tuttavia anche un luogo vivo e vitale fatto di solidarietà e aiuto reciproco. Questa realtà attirò l’attenzione di grandi intellettuali come Pier Paolo Pasolini che vi ambientò scene dei suoi famosi film.

Oggi, in quello spazio sconfinato della Campagna Romana, privati della loro funzione originaria, gli acquedotti emergono come architetture in cammino verso il centro della città segnando una prospettiva che guida il paesaggio. Così esili e leggeri da lontano, ma invero possenti nei solidi pilastri tufacei, le arcate solenni e ripetitive degli acquedotti sembrano destinate all’oblio o al più ad essere scenografia immobile erosa dal tempo.
Back to Top